Predatory journal, cosa sono e come si combattono?


È un problema dilagante, che sta minando la credibilità della scienza e provoca un ingente spreco in termini di finanziamenti, capitale umano e animale. Ecco alcune strategie per contrastarne l'avanzata

Get Me Off Your Fucking Mailing List”. Titolo, sommario, testo e immagini non ripetevano altro: solamente un lapidario “Toglietemi dalla vostra fottuta mailing list”. Uno scherzo? Più o meno, eppure l'articolo stava per essere pubblicato sull'International Journal of Advanced Computer Technology, dopo aver superato – almeno a detta della rivista – un rigoroso processo di referaggio anonimo. Può sembrare assurdo, ma non si tratta che di un esempio famoso, forse emblematico, di un fenomeno fin troppo diffuso. Un malcostume che sta minando alla radice la credibilità della scienza (l’ultimo esempio è una ricerca fasulla che ricalca una puntata di Star Trek, accettata e pubblicata senza colpo ferire). Parliamo delle cosiddette riviste predatorie, o predatory journal: giornali pay-for-use che pubblicano di tutto, promettendo di rispettare gli standard tradizionali dell'editoria scientifica e fornendo invece un servizio di pubblicazioni a pagamento privo di controlli e di valore. A puntare l'attenzione su questo fenomeno, drammaticamente in crescita, è oggi un team di ricercatori canadesi, che in un commento apparso su Nature Human Behaviour analizza la portata del problema, e prova ad abbozzare una lista di contromisure da adottare per stroncare la diffusione delle riviste predatorie.

La mailing list
A questo punto probabilmente la domanda è lecita: cosa c'entrano le fottute mailing list da cui siamo partiti con i predatory journal? La vicenda risale al 2014, quando l'esperto di computer science australiano Peter Vamplew decise di essere stufo di ricevere decine di mail ogni giorno da parte di riviste scientifiche di infimo livello. E pensò bene di vendicarsi alla sua maniera: preso l'articolo in questione, una famosa boutade realizzata nel 2005 dai ricercatori David Mazières e Eddie Kohle, lo inoltrò a una delle riviste che lo tormentavano, richiedendone la pubblicazione, esattamente come se si trattasse di un normale lavoro scientifico. Risultato? A pochi mesi dall'invio del testo arrivò la risposta della rivista, che accettava il paper per la pubblicazione, e assicurava che in seguito a un classico processo di peer review anonima il testo risultava a posto, necessitando al più di un miglioramento nella formattazione, e di un minimo aggiornamento delle reference.

Come è stato possibile? Evidentemente, si trattava di un predatory journal: per 150 dollari erano pronti a pubblicare qualunque cosa, senza neanche buttare un occhio al testo dell'articolo in questione. Assicurando che i costi sarebbero andati a coprire il processo di referaggio – evidentemente mai avvenuto – le spese di pubblicazione, catalogazione, e tutte le altre operazioni editoriali che rappresentano lo standard per le pubblicazioni scientifiche. Ma che in questo caso probabilmente non sarebbero mai state portate a termine. Per dovere di cronaca: Vamplew ovviamente non ha mai pagato i 150 dollari, l'articolo non è quindi stato pubblicato e, purtroppo per lui, non è mai stato rimosso dalla mailing list del giornale.

Riviste predatorie
Ma quante riviste come l'International Journal of Advanced Computer Technology esistono al mondo? Una risposta univoca non è facile da trovare: probabilmente sono migliaia, ma tutto dipende dal criterio che si sceglie per classificarli. In effetti, tutti i tentativi fatti fino ad oggi di stilare una lista di riviste predatorie si sono scontrati con un problema fondamentale, cioè la difficoltà di distinguere giornali onesti ma di scarso livello da quelli effettivamente fraudolenti. Il primo e più celebre tentativo di creare una autentica black list dei giornali scientifici predatori è stato quello di Jeffrey Beall, un volenteroso bibliotecario dell'università del Colorado che con le sue sole forze, e nel tempo libero, aveva compilato una lista di quasi duemila riviste da evitare a tutti i costi. A causa di una serie di polemiche sulla trasparenza dei criteri utilizzati, il database di Beall ha smesso di essere aggiornato (ma è ancora disponibile l'ultima versione), e il suo posto è stato ora preso dalla black list di Cabells, un'azienda che offre (a pagamento) servizi di assistenza per le pubblicazioni accademiche, e che a differenza del bibliotecario del Colorado ha stilato una lista di criteri per riconoscere le riviste fraudolente.

Tralasciando le liste, e la loro utilità, esistono alcuni campanelli d'allarme che aiutano a distinguere le riviste di cui è meglio non fidarsi. Nel loro articolo, i ricercatori canadesi ne citano diversi: il prezzo chiesto per le spese di pubblicazione e revisione (che nelle riviste open access serie solitamente è ben più alto dei 150 dollari chiesti a Vamplew), l'assenza della rivista dai database bibliometrici seri come PubMed, la scarsa qualità se non l'assenza di un autentico processo di peer review, e infine i titoli stessi delle riviste, che spesso nel caso di quelle predatorie tendono a richiamare quelli di giornali seri e ben noti nel proprio campo. Con queste precauzioni, i ricercatori dovrebbero riuscire a riconoscere le riviste affidabili da quelle fraudolente. Ma affidarsi al buon senso degli scienziati non è sufficiente: il problema infatti non ha ripercussioni solamente in ambito accademico, ma – assicurano gli esperti – rappresenta un serio rischio per la scienza, e un'enorme spreco di risorse materiali, umane e animali.

Le dimensioni del problema
Uno studio di pochi mesi fa realizzato dallo stesso team di ricercatori aiuta a comprendere l'entità del fenomeno. Analizzato poco meno di duemila articoli pubblicati su circa 200 riviste predatorie, gli autori hanno dimostrato infatti che il problema non è limitato alle ricerche di basso profilo, ma riguarda scienziati provenienti dalla più prestigiose università del mondo: dal Regno Unito, al Giappone, passando (ahinoi) per l'Italia e gli Stati Uniti, dove molte delle ricerche pubblicate su predatory journals arrivano dalla cosiddetta Ivy League, la crème de la crème del mondo universitario americano. Studi finanziati da istituzioni pubbliche come il National Institutes of Health (il più diffuso nel campione analizzato), che dai calcoli dei ricercatori coinvolgevano un totale di ottomila animali da laboratorio, e più di due milioni di esseri umani. Soldi, vite animali e soprattutto informazioni sanitarie provenienti dai pazienti, che vengono gettate alle ortiche perché gli articoli che le contengono non verranno mai presi in considerazione, a causa della scarsa serietà della testata su cui sono pubblicati e della mancanza di un sistema corretto di archiviazione dei contenuti.

La verità è che stiamo perdendo i dati di milioni di pazienti a causa di queste riviste predatorie”, spiega Manoj Lalu, anestesista dell'università di Ottawa che ha collaborato alla stesura del commento su Nature Human Behaviour. È per questo che i ricercatori canadesi ritengono fondamentale che si adottino politiche di contenimento del fenomeno, prima che sia troppo tardi. Tra le ipotesi proposte nel paper – oltre alle indicazioni per riconoscere le riviste da evitare – c'è l'invito a università e istituti di ricerca a fornire incentivi per la pubblicazione su riviste affidabili, quello alle agenzie pubbliche che finanziano le ricerca che dovrebbero vigilare come e dove questi vengono spesi, per disincentivare le pubblicazioni su riviste predatorie, e infine un'indicazione anche per le associazioni di pazienti, che potrebbero, e dovrebbero, fare pressioni per assicurare che i risultati dei trial clinici abbiano sempre una degna destinazione editoriale.


Fonte: WIRED.it


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